L’effetto della risposta alla richiesta
Quante volte, nella progettazione, ci sentiamo virtuosi perché sappiamo “ascoltare il bisogno” e rispondere con precisione? Puntuali, tempestivi, risolutivi. “Mi serve A”. “Ecco A”.
La tentazione di accontentare subito chi ci interpella è forte: dà l’illusione di essere efficaci, reattivi, orientati al risultato. Ma qual è l’assetto in cui si inserisce la nostra risposta? E come si è originata quella richiesta? Offrire la soluzione alla richiesta può diventare un boomerang: non solo non è detto che risolva il problema, ma rischia di aggravare la criticità di partenza.
Prendiamo il caso di un’Amministrazione Comunale che richiede un intervento per “promuovere la partecipazione dei cittadini” nella gestione di un certo problema, ipotizziamo la costruzione di una nuova scuola, o di un’area verde. Se ci limitiamo a soddisfare la domanda attraverso l’organizzazione di incontri pubblici o l’attivazione di piattaforme online – magari promosse con cura sui canali social – per “consentire ai cittadini di partecipare”, cosa può accedere?
Se non conosciamo qual è l’assetto delle interazioni di quella comunità, se non conosciamo il modo in cui quella comunità valuta e descrive il problema in questione o quanto è già allenata a contribuire alla gestione delle questioni pubbliche, come possiamo costruire un intervento efficace? Vorrebbe dire osservare la richiesta come slegata dal mindset con cui i membri della comunità costruiscono la questione critica: sarebbe come concepire l’esistenza di una mela indipendentemente dall’albero che le ha dato vita.

Osservare gli assetti interattivi in cui si generano le richieste
Di questo si tratta: rispondere ad una richiesta particolare e specifica, rimanendovi adesi, non considerando l’analisi degli assetti comunitari in cui ci inseriamo, rischia di produrre progetti sulla carta encomiabili, ma non necessariamente promotori di coesione per le comunità in cui si inseriscono.
Interveniamo, agiamo, proponiamo soluzioni concrete, eppure paradossalmente potremmo generare un aumento del disimpegno dei cittadini, una loro deresponsabilizzazione, o ancora conflitti e contrapposizioni (tra cittadini e Amministrazione, tra parti della comunità con interessi diversi, tra Istituzioni come scuola e comune). Chiamati a partecipare, ciascuno potrebbe avere espresso bisogni diversi. E la negoziazione, lo sappiamo, porta a lasciare qualcuno (e forse anche più di qualcuno) con l’amaro in bocca.
Progettare ad impatto per noi significa proprio questo: non accontentarci di rispondere al bisogno, alla richiesta individuale del nostro singolo cliente/partner/cittadino. La richiesta esplicita dell’interlocutore è una parte della questione, certamente importante, ma non sufficiente. L’altra parte riguarda il modo in cui il bisogno viene portato. La richiesta è il punto di inizio che ci consente di osservare l’esigenza della comunità come un indice, non di ciò che manca (il bisogno), ma del modo con cui quella criticità viene gestita a partire da quanto è già disponibile o si potrebbe sviluppare (l’esigenza). Sono questi elementi a dirci quanto il contesto sia pronto a prendersi carico della criticità che esprime. E attenzione, non osservarli, non ci impedisce di intervenire: aumenta però il rischio di progettare ed erogare interventi che, al posto di generare coesione, potrebbero frammentare ulteriormente la comunità che volevamo sostenere.

Dall’analisi dei bisogni all’osservazione dell’esigenza
Quando parliamo di “osservazione dell’esigenza”, ci riferiamo ad un’operazione scientifico-metodologica di osservazione dei modi in cui gli interagenti di una comunità “danno forma” ai problemi che incontrano. È un’osservazione che va oltre il contenuto. Prende in esame il linguaggio, il modo con cui usiamo le parole, i ruoli, i non detti e costruiamo narrazioni che diventano realtà. Ma cosa significa, concretamente?
Significa osservare quanto chi costruisce il “bisogno” si assume una quota di responsabilità nella sua gestione, ovvero quali modi di interagire usa nel portarlo. Significa osservare se, attorno a quel bisogno, c’è già una storia di interazioni — magari conflittuali, magari già orientate alla corresponsabilità— da considerare per costruire il progetto. Significa capire se chi formula la richiesta è disposto a partecipare alla costruzione della risposta, o si aspetta che questa gli venga erogata “dall’alto”. Perché la risposta “perfetta” a un bisogno isolato può funzionare sul breve periodo (posso lucidare a regola d’arte la mela che ho in mano), ma senza una visione di comunità orientata allo sviluppo della sua coesione, il progetto resterà sempre “qualcosa che si dà o si fa”, non qualcosa che “consente di costruire insieme” il futuro. Progettare ad impatto significa partire dall’albero, dal dove possono generarsi i problemi ma anche le “risposte”. Occuparsi dell’albero ci consentirà di gestire la richiesta di mele, dentro una visione che parte da ciò che genera e non solo da ciò che ci viene chiesto.