Circolarità tra cittadini e istituzioni
Come attrezzarsi per le emergenze (...e non solo)
Cosa serve per fronteggiare un’emergenza preservando la compattezza della comunità? Ne parlano le nostre consulenti per lo sviluppo della Comunità Silvia de Aloe, Cristiana Ferri, Arianna Pagliaccia.
Produzione di proprietà di DialogicaLab
1. I limiti dell'attuale coinvolgimento dei cittadini nella gestione delle emergenze comunitarie
Far fronte ad un’emergenza - che sia dovuta ad un evento naturale (pensiamo alle alluvioni o ai terremoti) o ad eventi economico-finanziari, o sanitari - comporta per la comunità “fare i conti” con cambiamenti che possono generare importanti trasformazioni del tessuto sociale, tanto da poterne minare la salute e la coesione e addirittura il suo mantenimento.
In queste situazioni, in cui in tempi contratti emergono nuovi bisogni e si moltiplicano gli imprevisti, diventa ancora più impellente l’esigenza della comunità di fare fronte comune, non per vezzo o perché più si è meglio è, ma poiché il contributo di ciascuno può fare la differenza nel comprendere il problema e nel portare proposte, idee, e risorse che altrimenti potrebbero andare disperse.
Come accaduto e continua ad accadere dalla primavera 2020, a partire dalla voce delle istituzioni, le varie componenti della comunità sono state esortate ad essere coese nella gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19. A tal proposito “#iorestoacasa”, l’hashtag che per un’intera nazione rimanda in modo netto e chiaro a questo spaccato di storia comune, lo possiamo considerare rappresentativo di come la chiamata a far fronte alle emergenze non riguarda solo “gli addetti ai lavori” o chi ne è direttamente “colpito”, ma è rivolta a tutti. Le condizioni che si sono presentate nel corso di questo tempo hanno infatti rimesso il focus su come anche in queste situazioni la strada vincente sia generare un circolo virtuoso di corresponsabilità che coinvolge l’intera cittadinanza.
L’analisi di questo periodo ci insegna tuttavia che, per creare responsabilità, non è sufficiente esortare alla stessa, offrire una lettura del problema e prescrivere nuove regole di comportamento. Questa via risulta poco efficace poiché non considera un aspetto fondamentale della comunità: la costante incertezza che caratterizza le interazioni tra i suoi stessi membri [1], quindi la possibilità che coesistano diversi modi di leggere l’emergenza e di considerare responsabile o meno un certo modo di agire. Di conseguenza tale via non governa la nascita di posizioni e modi di agire differenti fra loro e con essi la dispersione di risorse e fratture nel tessuto comunitario. La domanda come può essere promossa la responsabilità dei cittadini nella gestione di emergenze? resta dunque ancora aperta e qui proveremo a dare una risposta.
2. Cosa accade se si guarda oltre al proprio giardino: storie di responsabilità diffusa durante l'emergenza COVID-19 e non solo
Se, citando Einstein, non si può pensare di risolvere un problema con la stessa forma di pensiero che lo ha generato, viene da sé che il primo passo per generare responsabilità diffusa è ripensare al modello di comunità e di cittadino a cui fare riferimento e a cui tendere.
Al riguardo, la storia del nostro Paese è costellata di eventi emergenziali di diversa natura, che se da un lato hanno rappresentato importanti ferite per la comunità (conosciamo ad esempio le implicazioni dell’attuale situazione emergenziale sul piano non solo sanitario ma anche economico e sociale), dall’altro continuano ad offrire significativi insegnamenti circa l’impostazione di comunità da seguire per poter assistere ad una gestione corresponsabile delle emergenze. Osservando infatti da vicino alcune esperienze recenti e passate è possibile cogliere tratti comuni rispetto ad un possibile modo di concepire la comunità, e concepire sé stessi come suoi membri, per diventare un Paese che si occupa in modo efficace e sostenibile delle proprie esigenze, qualsiasi sia la situazione o difficoltà che si trova ad affrontare, oggi e nel futuro.
Si pensi a quando nel 1980 il terremoto ha colpito l’Irpinia e migliaia di persone accorsero da tutta Italia per aiutare le popolazioni campane e lucane. Senza che nessuno le avesse chiamate – all’epoca non era ancora presente una solida gestione accentrata dei soccorsi - e senza aspettarsi nulla in cambio, arrivarono con le proprie auto, con mezzi di soccorso, carichi di provviste, coperte, medicinali e lavorarono per molti giorni e notti[2]. Nel 1966 con l’alluvione di Firenze accadde qualcosa di simile: chiamarono gli Angeli del Fango coloro che si mobilitarono per aiutare la città, con le sue opere d’arte e culturali, a liberarsi dal fango[3].
E ancora, secondo due progetti di ricerca finanziati dall’UE, il progetto SOLIDUS[4] ed in particolare il progetto TransSOL[5] durante la crisi economica del 2008, il successivo periodo di austerità e la crisi europea dei migranti iniziata nel 2015 è stato registrato un significativo incremento delle iniziative di solidarietà civica da parte dei cittadini. Transitando in un altro ambito, esemplificativo è il movimento per l’emergenza climatica Fridays for future: nato nel 2018 dall’iniziativa di un singolo, in poco tempo ha generato ampia adesione e attivazione da parte di cittadini di tutto il mondo, favorendo una diversa presa in carico della situazione allarmante anche a livello politico. Arrivando ad oggi, possiamo registrare che solo in Lombardia nel periodo tra marzo e luglio 2020 il Centro per i Servizi di Volontariato ha conteggiato che sul totale dei volontari che si sono mobilitati per dare supporto nella gestione dell’emergenza sanitaria l’87% era composto da cittadini alla prima esperienza [6]. In proposito, diverse sono state le iniziative realizzate in tante città, paesi, quartieri e condomini, dove singoli cittadini, autonomamente, si sono resi disponibili dando il via a movimenti ed interventi di sostegno alla comunità. Si è trattato in molti casi di movimenti iniziati dal basso e che solo in seguito hanno assunto la forma di veri e propri servizi /progetti. Si fa per esempio riferimento - la lista potrebbe essere molto lunga - all’iniziativa Bergamo X Bergamo - facciamo squadra [7], alla Portineria di comunità [8] di Torino, o la campagna di mutualismo Don’t Panic - Organizziamoci! [9] di Bologna.
Questi esempi e dati suggeriscono innanzi tutto di pensare alla comunità umana non come la somma di tanti singoli individui o gruppi diversi e indipendenti l’uno dall’altro, ma piuttosto come una fitta massa di interazioni (o potremmo dire come una foresta [10]) continuamente mutevole ma costantemente orientata a cercare la propria coesione. Ciascun cittadino è quindi potenzialmente in grado e può essere messo nelle condizioni di fare la propria parte per consentire alla comunità di superare difficoltà e raggiungere traguardi comuni, a prescindere dal tornaconto personale. Queste storie, mostrano infatti che la carica virale più potente del pianeta appartiene agli esseri umani ed è il potere di scegliere come stare nella comunità e di generare modi di stare insieme, nuove regole [11] che trasformano, in meglio o anche in peggio, lo stesso vivere insieme (e quindi la vita di ciascuno). Abbiamo visto che per come interagisce con gli altri, “uno” può far riempire ogni venerdì le piazze di tutto il mondo per il clima oppure far litigare un intero condominio. Attenzione: questo non significa che le istanze, gli interessi individuali debbano essere trascurati, ma che si tratta di pensare ad ogni cittadino (singolo e aggregazioni formali e informali) come ad un membro della comunità che oltre a pensare al proprio bene, nell’agire può tenere a riferimento il bene e la coesione della stessa, come opportunità per rispondere anche al proprio interesse. E non significa nemmeno che contribuire al bene comune comporti la disponibilità ad atti di eroismo o comportamenti esemplari o modelli ideali da seguire. Si tratta di prendere atto dell’evidenza scientifica di essere in continua connessione [12] e che le scelte, le azioni e le competenze di ciascuno possono diventare un contributo per tutti se valorizzate e messe a disposizione per rispondere alle esigenze comuni. Trascurare il fatto che “tutto quello che è, e agisce nella comunità, è la comunità” comporta fare l’errore di pensare che ciò che accade riguarda solo alcuni cittadini (ad esempio i bisognosi e gli altruisti) mentre altri, con le loro risorse, idee o anche criticità, possono restare in panchina e fuori allenamento, o creare malcontenti e fratture. Viene da sé che se siamo tra noi interconnessi come i giocatori di una squadra, non possiamo far altro che ritenere la responsabilità come una questione circolare: ciascuno in base a come decide di stare nella comunità può permettere anche agli altri di contribuire o meno alla gestione delle difficoltà e allo sviluppo della comunità stessa.
3. Come trasformare le esperienze occasionali in un metodo gestionale replicabile: il 'Communityholder engagement' (marchio registrato)
Fronteggiare in modo compatto, sostenibile ed efficace qualsiasi forma di emergenza richiede di dotarsi di un metodo che consenta di concretizzare in modo continuativo il disegno di comunità descritta e, come abbiamo visto, già in parte sperimentato dal nostro Paese.
Le esperienze che abbiamo raccontato dimostrano che esiste la possibilità per cui, in modo del tutto spontaneo, le persone partecipino alla gestione di quanto necessario in nome del bene comune. L’impostazione scientifica di comunità delineata ha reso inoltre evidente che per caratteristica intrinseca, la forma della comunità dipende da come i suoi membri decidono di farne parte. La comunità non ha orari di chiusura e non c’è modo di sottrarsi alla responsabilità di scegliere come starci. Ciascuno - singoli, associazioni, imprese del pubblico e del privato, le stesse istituzioni - è costantemente coinvolto nel darle forma. Ed è proprio la stessa natura della comunità ed il modo di pensarsi come membri che contribuiscono a crearla, a suggerirci come la via principale per promuovere responsabilità nei singoli cittadini sia promuovere responsabilità condivisa nella comunità coinvolgendola nella gestione delle questioni che la riguardano.
L’engagement della cittadinanza, la sperimentazione di forme di partecipazione e di coinvolgimento dei cittadini non è di certo una novità: è un movimento internazionale, suggerito dalla stessa UE che, da almeno venticinque anni promuove la realizzazione dell’intuizione per cui sia possibile costruire una comunità coesa e in salute solo se i suoi membri vengono essi stessi coinvolti nella gestione degli aspetti che li riguardano [13]. Esistono tuttavia dei fondamentali passaggi di metodo da tenere in considerazione per consentire alle azioni di engagement di avere la portata auspicata e far sì che la scelta di partecipare non si basi solo sull’intento di ottenere dei benefici personali. Il coinvolgimento dei soli cosiddetti stakeholder o portatori di interesse genera infatti criticità, sia perché può alimentare aspettative e contributi potenzialmente non coerenti con il perseguimento di obiettivi comuni, sia perché rischia di tagliar fuori dai giochi tutti coloro che non si considerano o non vengono considerati interessati, mantenendo esclusione, malcontento e disgregazione. Partiamo quindi dal presupposto che, come detto sopra, anche quando le istituzioni sono assenti, le direzioni da percorrere sono fumose, i servizi chiudono, la gestione proposta non è condivisa, ciascun cittadino può scegliere di farsi promotore nella quotidianità del disegno di una comunità i cui membri collaborano facendo fronte comune. Ma per sprigionare questo potenziale si rende necessario ripensare scientificamente ai paradigmi di engagement (a partire dal livello istituzionale) e lavorare metodologicamente sulla capacità di impostare e mantenere, tramite i Servizi, un dialogo con i cittadini basato sul perseguimento di obiettivi di bene comune.
Proponiamo quindi, in modo sintetico, i passaggi di metodo che abbiamo individuato [14] per un Communityholder Engagement ovvero per promuovere da parte dei cittadini la condivisione della responsabilità della gestione della propria comunità e soprattutto delle emergenze:
[1] Turchi, G.P. & Vendramini, A. (a cura di) (2021). Dai corpi alle interazioni: la Comunità umana in prospettiva dialogica. Rilevazione, misura e gestione dell'interazione: tra coesione e frammentazione, tra apertura e chiusura delle possibilità. Padova University Press, Padova.
[2] http://www.protezionecivileicaro.com/index_htm_files/La_Protezione_Civile_nella_Storia.pdf
[3] Si veda nota 1
[4] https://cordis.europa.eu/article/id/238749-sustaining-solidarity-in-europe/it
[5] https://cordis.europa.eu/article/id/123837-civic-solidarity-under-the-microscope/it
[6] http://www.lombardiasociale.it/2020/07/28/covid-19-un-volontariato-diverso/?doing_wp_cron=1615497999.6203598976135253906250
[7] https://www.facebook.com/bergamoxbergamo/?ref=page_internal
[8] Https://www.torinosocialimpact.it
[9] https://dontpanicbo.it/
[10] Per aiutare ad immaginare la comunità per come qui brevemente descritta si suggerisce l’intervento a TED dell’ecologa Suzanne Simard Come gli alberi parlano tra loro https://www.ted.com/talks/suzanne_simard_how_trees_talk_to_each_other/up-next?language=it#t-12962
[11] si veda nota [1]
[12] Turchi, G.P. & Vendramini, A. (a cura di) (2021). Dai corpi alle interazioni: la Comunità umana in prospettiva dialogica. Rilevazione, misura e gestione dell'interazione: tra coesione e frammentazione, tra apertura e chiusura delle possibilità. Padova University Press, Padova.
[13] Si fa riferimento alla coesione sociale, nel 1995, quando nel corso del summit mondiale per lo sviluppo sociale promosso dall’UNESCO, Federico Mayor, direttore generale per l’educazione, la scienza e la cultura, apre il suo discorso introduttivo con la citazione del preambolo dell’Atto costitutivo della organizzazione ospite: “Lo sviluppo economico è necessario, ma non sufficiente. Lo sviluppo politico è indispensabile, ma non sufficiente. Il benessere dipende dalla ‘solidarietà intellettuale e morale dell’umanità’”. Poi aggiunge: “Al fine di celebrare l’inizio del Decennio delle Nazioni Unite per le popolazioni autoctone, l’UNESCO ha accolto una Conferenza dell’Assemblea delle popolazioni autoctone per la pace, che è stata creata da Rigoberta Menchù Tum. Durante tale conferenza, alcuni rappresentanti delle comunità autoctone hanno espresso le loro idee circa i loro bisogni sociali e culturali, citando il libro sacro dei Maya Popol Vuh: ‘Que no sean ni uno ni dos ni tres. Que todos se levanten. Que nadie se quede atras’ (Che non ci sia né uno, né due, né tre. Che tutti si levino. Che nessuno resti indietro). Si può immaginare una migliore definizione di coesione sociale? (UNESCO, 1997). Per la Task Force d’haut niveau pour la cohésion sociale (2007) costruita appositamente dal Consiglio d’Europa per passare in rassegna la propria strategia in materia di coesione sociale nel 21° secolo, “una delle questioni fondamentali è l’utilità della coesione sociale in quanto nozione faro per il Consiglio d’Europa, ma anche per gli Stati membri”, poichè presenta “numerosi vantaggi”: richiede un approccio trasversale evocante “l’idea della necessaria partecipazione di tutte le parti implicate [...]”; incoragga “l’esplorazione di nuovi spazi di consultazione, concertazione e chiarificazione delle responsabilità individuali e collettive” focalizzandosi “sul nuovo ruolo delle istituzioni pubbliche”; ha “un legame diretto con il funzionamento della democrazia” di cui “permette di identificare le condizioni sociali indispensabili [...] mettendo in opera una sorta di ‘filtro’ per valutare la misura in cui una azione o una decisione data, sia essa pubblica o privata [...], contribuisce all’equità, alla dignità e alla partecipazione [...] non soltanto a livello locale, ma anche ai livelli nazionale e internazionale”.
[14] Dialogica Cooperativa Sociale con la referenza scientifica del prof. Gian Piero Turchi dell’Università degli Studi di Padova.
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